Qualche mese fa a Milano sono nati i semi di una rete, speriamo in espansione, che ha messo insieme diverse collettività della metropoli e che vorremmo rimanesse aperta. Tante realtà eterogenee che hanno al centro della loro azione ambiti diversi e differenti pratiche; siamo principalmente realtà dello sport popolare, collettività politiche di spazi occupati, collettività che si occupano delle trasformazioni della città, soggetti e gruppi che frequentano la montagna da una certa prospettiva, reti e organizzazioni di intervento politico, sociale ed ecologico. Lo scopo è quello di contestare l’operazione Milano-Cortina 2026 consapevolə che la questione delle Olimpiadi Invernali 2026 è evidentemente complessa e tocca una molteplicità di aspetti: da quello sportivo a quello abitativo, passando per lo sfruttamento lavorativo, il cambiamento e la gentrificazione della città così come il consumo di suolo, ma anche quanto accade all’ambiente e contesto montano. In sostanza, le Olimpiadi sono paradigmatiche di un modello di sviluppo che quotidianamente proviamo a contrastare e modificare, in quanto insostenibile sul piano economico, climatico, ambientale e sociale.
Per affrontare e lottare contro un processo che impatta in maniera così vasta e a differenti livelli, riteniamo necessario innanzitutto lo scambio di saperi e pratiche che le varie collettività hanno sviluppato finora, senza dimenticare l’esperienza di chi in passato ha già vissuto una trasformazione simile nei propri territori, così da sviluppare un pensiero e un’azione critica, una narrazione che smonti la propaganda mediatica. Parimenti crediamo che solo la costruzione di un fronte ampio, intersezionale, che coinvolga tutti i territori e tutte le popolazioni che già oggi sono interessate e danneggiate dalle opere realizzate o in via di realizzazione per i Giochi - o con la scusa di questi -, dalle infrastrutture connesse e dalle loro conseguenze sociali, possa opporsi alla macchina olimpica.
Le Olimpiadi 2026, come tutti i mega eventi, sono figlie di una prassi consolidata che vede utilizzare questi eventi per creare una sorta di “ambito protetto” e stato d’eccezione in cui concentrare opere e progetti (anche non necessariamente indispensabili all’evento stesso e altrimenti spesso non realizzabili), beneficiando di finanziamenti pubblici straordinari, deroghe alle norme che regolano appalti e cantieri, procedure semplificate e governance d’emergenza. Il tutto generando di fatto una gestione privatistica di risorse pubbliche che sfugge ai normali organismi di controllo amministrativo, contabile e ambientale. Nel caso di Milano-Cortina 2026, le spinte sono venute soprattutto dal blocco di potere economico-finanziario che, da oltre un decennio, sta beneficiando della trasformazione di Milano e della sua corsa sfrenata allo sviluppo immobiliare, alimentato da politiche urbane attente solo ad attrarre capitali e nuovi abitanti ad alto reddito e a far crescere i flussi turistici e il posizionamento globale della città a colpi di eventi. Esaurito l’effetto Expo serviva un nuovo volano; mancando a Milano l’elemento indispensabile, le montagne, si è allargata a Cortina l’organizzazione, alimentando sul piano del turismo montano le stesse dinamiche che caratterizzano oggi le metropoli globali nel modello neoliberista, estrattivo e predatorio, del capitalismo fossile, noncuranti della insostenibilità sociale ed ambientale di queste politiche. A supporto sono arrivati i blocchi sociali e di potere che da decenni governano Lombardia e Veneto e che trovano nello sviluppo di infrastrutture viabilistiche e autostradali (funzionali a un sistema economico e di imprese che sta trasformando la Pianura Padana in un enorme polo logistico) il loro sbocco di interessi da garantire. Attraverso un modello di sviluppo tipicamente urbano, le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 alimentano un rapporto sempre più conflittuale fra città e montagna. La montagna come fabbrica del divertimento, concepita per soddisfare esclusivamente l’attrattività turistica, è l'essenza del pensiero uniforme di chi sta governando questo processo, secondo logiche impattanti, esclusive ed escludenti.
Non le sostiene lo sport popolare che da anni cerca di sottrarsi alle logiche di un certo tipo di sport, quello dei grandi eventi, a scopo prevalentemente commerciale, uno sport che sfrutta i lavoratori e le lavoratrici e che ci sottrae spazi in città.
Non le sostiene chi dice basta all’attuale modello di sfruttamento turistico della montagna e pensa sia necessario una nuova prospettiva per le Terre Alte.
Non le sostiene chi pensa che la città sia in primis uno spazio pubblico, che deve includere e ampliare diritti sociali e civili, e non un territorio da spartire fra gli interessi dei grandi investitori e da cui estrarre valore a discapito della collettività.
Non le sostiene chi ritiene necessario un radicale cambiamento di rotta e di sistema a fronte dei cambiamenti climatici e della crisi ambientale che l’attuale modello di sviluppo neoliberista ed estrattivista, basato sul “capitalismo fossile”, sta rendendo irreversibili.
Non sosteniamo la narrazione, che spesso accompagna i Giochi olimpici, di un momento in cui si propone la retorica dell’avvicinamento di nuove persone agli sport, anche nuovi. Un momento magari tramite cui coinvolgere bambini e bambine (oggetto politico metafora di orizzonte futuro, un orizzonte di benessere) o chi non ha possibilità di accedere alle strutture per via di barriere architettoniche, sociali o economiche. Gli sport che ci lasciano in eredità le Olimpiadi invernali sono al contrario inaccessibili allə più, svolti in impianti economicamente cari nella costruzione e con elevati costi di accesso o fruizione (skipass o biglietti che siano), che escludono la maggior parte delle persone. Ma anche nella metropoli Milano, lo sport per tutte e tutti è sempre più negato dalla privatizzazione dei centri sportivi e ricreativi comunali. A questo ci opponiamo e rivendichiamo invece uno sport accessibile da diversi punti di vista, prima di tutto quello economico.
Vogliamo sottrarci anche a una narrazione delle Olimpiadi come un evento di “orgoglio nazionale” e allo stesso tempo un momento di pace, si diceva koinonia tra le nazioni, e di grande armonia. Come già abbiamo visto solo nelle più recenti vicende dei giochi di Rio e Londra, espulsioni e sfratti di massa e repressione delle proteste hanno mostrato il lato violento del grande evento sportivo. Ci sottraiamo a quella narrazione di un'Olimpiade pacificata e pacificante, “la pace per fare quello che voi volete”: non la stavamo aspettando, non batteremo le mani al passaggio della fiaccola olimpica, non saremo parte dell’olimpiade diffusa, non accoglieremo lə turistə, non lucreremo sulla città e chi vi abita. Non saremo ingranaggio della macchina del consenso.
Sin dalla candidatura il tandem Milano-Cortina si è distinto per l’assenza di trasparenza e condivisione dei progetti con le popolazioni locali e per la mancanza di qualsiasi tipo di dibattito pubblico. Una narrazione accattivante, nel solco della solita “economia della promessa”, infarcita di retorica green e social, per costruire il consenso e far passare nell’opinione pubblica che i miliardi stanziati dai vari decreti legge siano “spesi a fin di bene”. Nell’ipocrisia di un evento venduto come “a costo zero”, abbiamo ormai superato i tre miliardi di euro di fondi pubblici allocati (fine novembre 2023); sebbene promosse sin dall'inizio come le “Olimpiadi della sostenibilità”, la maggior parte degli investimenti riguardano invece consumo di suolo, spreco di acqua in tempo di siccità sistemica, cementificazione e incentivi al traffico su gomma - non è un caso che Eni sia tra i maggiori finanziatori dell’evento. Il “pacchetto olimpico" esplode così di opere calate dall’alto, là dove i bisogni e i desideri di chi vive realmente quei luoghi sono tutt’altri e restano inascoltati. Un esempio su tutti è Cortina, dove si era scelto di espropriare e abbattere un lariceto secolare e spendere oltre 120 milioni di euro per ricostruire una pista da bob, in un’area montana con servizi pubblici in crisi e le unità socio-sanitarie che chiudono i bilanci con perdite milionarie. Un’eredità di debiti e opere inutili si distribuisce così sul territorio, per rispondere a nient’altro che un istinto predatorio di consumo della montagna.
E cosa dire della continua promessa di benefici mirabolanti sul piano economico (siamo arrivati a 4,5 mld di euro di ritorni economici a detta loro) quando di fronte abbiamo ancora l’esempio dei debiti delle Olimpiadi di Torino 2006 che hanno destinato il capoluogo piemontese a una depressione economica e sociale permanente? O della retorica sul piano occupazionale, quando sappiamo benissimo quali lavori e a quali condizioni l’organizzazione del grande evento genera: precariə e malpagatə nelle filiere del turismo e della ristorazione, con scarsa sicurezza e tutele nei cantieri e nella logistica, gratuito per chi presterà servizio nelle settimane dei Giochi nei vari staff per biglietti, ricevimento, stewards e hostess secondo un modello di volontariato per i grandi eventi privati, sdoganato con Expo 2015 e destinato a intossicare in modo permanente il mercato del lavoro.
Oltre la monocultura dello sci su pista: reimmaginare l’inverno
La vorace macchina olimpica non trova dialogo con le comunità, lasciando in eredità opere costose da gestire e destinate all’abbandono, come già accaduto per i Giochi invernali di Torino 2006. Tra gli interventi, oltre all’ampliamento di impianti e piste da sci, si assisterà all'aumento di altre strutture funzionali alla pratica dello sci di massa (alberghi, parcheggi, impianti a fune, ristoranti, strade…). Tutto questo in un contesto di crisi profonda dell’industria sciistica, ormai giunta a un punto di non ritorno e incapace di stare in piedi dal punto di vista ecologico, energetico e non ultimo economico. Trovare una risposta alla crisi della montagna come divertimentificio non è semplice ma di sicuro sosteniamo un ripensamento del turismo invernale montano. Il modello proposto dal ticket Milano-Cortina ricalca invece traiettorie opposte, insostenibili e indesiderabili.
Al culmine di una crisi idrica senza precedenti, il 2023 ha visto la prima grande mobilitazione diffusa contro la opere nocive e imposte dalle Alpi agli Appennini: per “reimmaginare l’inverno”, in diversi territori sono nati comitati per opporsi alla costruzione di nuovi impianti a fune, bacini per l’innevamento artificiale e altri interventi di ampliamento e collegamento tra comprensori sciistici esistenti. A fronte di un cambiamento climatico, che rende sempre più insensato sciare al di sotto di certe quote e che anche ad alte quota palesa la sua insensatezza con piste tracciate scavando ghiacciai perenni, desideriamo un futuro diverso per la montagna, mettendo in discussione l’offerta di servizi e divertimento ad ogni costo che non possiamo più permetterci, rivolta per lo più alle classi più ricche della popolazione urbana. L’opposizione e la critica ai Giochi olimpici invernali pone dunque le basi anche per un cambiamento non solo economico e ambientale, ma anche culturale del nostro sguardo sulle Terre Alte.
Dalla città a misura di eventi (privati) al diritto alla città
La Milano a misura di Olimpiadi è la versione amplificata e futura della città che già viviamo da due decenni a questa parte, che alimenta sé stessa in maniera bulimica con eventi per rimanere attrattiva a chi non vi abita, ma sempre più insostenibile per chi deve viverla nella quotidianità. Sosteniamo una città diversa: sosteniamo gli spazi dello sport popolare e, attraverso questa pratica, sosteniamo la costruzione di uno sport inteso come socialità, come benessere psicofisico, come pratica antifascista, antirazzista e transfemminista. Sosteniamo uno sport accessibile a tuttə, sosteniamo la pratica dell’autogestione e della costruzione di collettività resistenti. Mentre continuano gli sgomberi in città, sosteniamo il moltiplicarsi di questi spazi liberati.
A Milano le Olimpiadi stimoleranno i già preoccupanti processi di privatizzazione, finanziarizzazione e cementificazioni di grandi aree pubbliche verdi. A livello di nuovi servizi e nuove strutture pubbliche e accessibili, per esempio nel campo della pratica sportiva, non vi sarà alcuna integrazione a quanto già presente. Anzi, la privatizzazione di ex strutture di MilanoSport, la partecipata del Comune di Milano che dovrebbe garantire un’accessibilità diffusa alla pratica sportiva a basso costo, è divenuta una realtà sempre più rilevante con cui confrontarsi (in particolare richiamiamo alla memoria il Lido, la più grande piscina all’aperto ora non più di MilanoSport). Il PalaItalia è un’operazione di privati che stimolerà i circuiti commerciali di questi e come lascito ci porterà non sport, ma extracosti (di denaro pubblico) e grandi concerti, su cui ad essere positivi possiamo sperare si calino nuove orde di autoriduttori.
Ciò che più spaventa, poi, è la prospettiva per il diritto all’abitare e l’accessibilità più in generale alla vita urbana in un contesto in cui il valore immobiliare delle zone che vedranno svolgersi gran parte delle attività urbane dell’evento sportivo sta aumentando, con una ricaduta a livello metropolitano e conseguente espulsione di abitanti a medio e basso reddito. Corvetto, quartiere popolare del sud della città, e tutto il quadrante della periferia sud est che scende fino a Rogoredo, è la zona che promette di acquisire valori inaspettati (ad oggi si parla di una crescita di circa il doppio della media cittadina), sfruttando il basso valore iniziale rispetto al resto della città. Nuovamente lo sfruttamento del territorio offerto in pasto a finanza e costruttori peserà in maniera ancora più drammatica sui costi dell’abitare ormai insostenibili per chi vive attualmente in questi quartieri. Sullo sfondo l’approssimarsi di una possibile bolla immobiliare con prossima ormai nuova crisi che in questo contesto avrebbe effetti esplosivi. A chi quindi il grande evento fa comodo, se non agli interessi del settore turistico e quello delle grandi società del settore immobiliare che sempre di più si impossessano della città? Le Olimpiadi a Milano sembrano rientrare oggi a pieno in quel modello che produce grandi narrazioni e nuove immagini, promuovendo marketing e spettacolarizzazione, i cui costi saranno pagati da tantə a favore dei pochissimə.
Siamo consapevoli che a poco più di due anni di distanza dalle Olimpiadi 2026 chiederne l’annullamento e l’azzeramento di tutte le opere previste, per quanto resti l’opzione più logica e sensata, è concretamente molto difficile; ma allo stesso tempo riteniamo necessario e possibile mettere in campo a Milano, in Valtellina, nelle valli dolomitiche, tutte le iniziative e le azioni possibili per ostacolare, bloccare, cancellare la realizzazione di tante opere inutili, siano infrastrutture o impianti di gara, previste dal dossier olimpico, evitando inutili sprechi di denaro (come per i palazzetti del ghiaccio temporanei in Fiera a Rho o la ristrutturazione della pista da bob a Cesana), ulteriori devastazioni ambientali o consumo di suolo. Così come riteniamo necessario che si attivi nella città di Milano un moto di rivolta verso il modello urbano che le Olimpiadi contribuiscono ad alimentare e che nega il diritto all’abitare e alla città ai suoi stessi abitanti. E, guardando al futuro, nel solco di quanto già sta accadendo in altri Paesi con Olimpiadi in fase di organizzazione o appena svolte, riteniamo importante che cresca e si consolidi un movimento globale che superi l’attuale modello organizzativo non più sostenibile dei grandi eventi sportivi. Che da qui al 6 febbraio 2026 e per tutta la durata delle Olimpiadi i territori interessati dalle opere per i Giochi Milano-Cortina rompano la “pax olimpica”: ribadiamo che le nostre vite non sono un gioco e diciamo basta allo sfruttamento senza limiti di montagne, territori, acqua, beni comuni urbani e ambientali per estrarre profitti a beneficio di pochi.
Comitato Insostenibili Olimpiadi - Milano 2023